Alle donne (non) piace il calcio
C’è una scena che si ripete, quasi come un rituale sacro, ogni settimana. Una donna osa dire: “Domani c’è la partita, non vedo l’ora!” – e improvvisamente, nella stanza cala il silenzio. Gli uomini si guardano tra loro con sguardo sospettoso, come se lei avesse appena detto di essere un’agente segreta russa o, peggio, di capirne più di loro di fuorigioco. Si parte con il solito teatrino.
“Ah sì? E da quando ti piace il calcio?”
“Davvero tifi quella squadra o lo fai per il fidanzato?”
“Va bene, dimmi il modulo del 2010, dai!”
Se non fosse tutto terribilmente vero, potremmo riderne. E in effetti, un po’ ridiamo lo stesso – per non piangere. Perché nel 2025 siamo ancora qui, a dover spiegare che la passione per il calcio non ha genitali, e che una donna può amare i dribbling quanto ama il mascara waterproof (che per inciso è perfetto anche quando piangi per i rigori sbagliati al 95’).
Per molti uomini, il calcio non è solo uno sport. È un fortino. Un bastione dell’identità virile, dove rifugiarsi dal mondo che cambia troppo in fretta. Un posto sicuro, dove ci si può ancora dividere tra “noi” e “loro”, tra “uomini veri” e… tutto il resto. E quando una donna entra in quel fortino – con sciarpa al collo, voce roca da curva e un’opinione tecnica che non prevede frasi tipo “quel calciatore è carino” – allora ecco che parte la crisi esistenziale.
Perché una donna che capisce di calcio è una minaccia. Semplice. Toglie all’uomo un pezzo del suo totem, lo priva di una delle ultime isole su cui può sentirsi competente per diritto di nascita. Come il barbecue, i cavi HDMI e la spiegazione del fuorigioco a ogni Mondiale. (Spoiler: il fuorigioco non è poi così difficile. È solo il modo in cui certi uomini testano la tua pazienza.)

E la vera mina sotto questo castello di insicurezze è l’idea – ancora durissima a morire – che le donne dovrebbero avere interessi “da donne”, punto. Moda, trucco, chiacchiere leggere, romanticismo. Tutto ciò che non minaccia il dominio culturale maschile. Quando una donna osa invadere uno spazio storicamente riservato agli uomini, come il calcio o il fantacalcio, si scatena un fastidio quasi viscerale.
“Che ci fai tu qui?”
“Torna tra i rossetti, che di moduli non capisci.”
“Fatti la tua lega di fantabeauty, ma non venire a rovinare il nostro fantacalcio.”
Non è una battuta. C’è davvero chi parla così. Come se ci fosse un catalogo universale degli interessi legittimi diviso per sesso. Come se lo sport, l’analisi, la strategia o la competizione fossero prerogative esclusivamente maschili. Come se il calcio fosse un affare di testosterone.
C’è poi un altro problema: la rappresentazione. Le donne nel calcio ci sono – eccome – ma vengono quasi sempre rappresentate come tifose da copertina, sexy ma mute. Oppure, al contrario, come “maschiacci” che hanno dovuto rinunciare alla femminilità per farsi accettare. Se una donna parla di 4-3-3, è “una di quelle che vuole fare la maschiaccia”; se invece tifa ma porta i tacchi, allora “lo fa solo per seguire il fidanzato”.
Insomma, qualsiasi cosa tu faccia, sei sbagliata. O troppo donna, o troppo poco. Ma mai, semplicemente, tifosa.
Eppure le donne nel calcio ci sono sempre state. Le madri che ti portavano agli allenamenti. Le sorelle che imparavano a giocare solo per fare da portiere nei pomeriggi al parco. Le fidanzate che davvero si appassionano, e non “per amore tuo”, ma per amore della squadra. Le croniste sportive, le arbitre, le calciatrici, le dirigenti. Invisibili, certo, ma solo a chi non vuole vederle.
E infine, il calcio femminile. Ne vogliamo parlare? E parliamone.
Quando una donna gioca a calcio, spesso si sente dire che “è uno sport da uomini”, che “non ha la stessa potenza”, che “non è spettacolare come quello maschile”. Certo, perché 90 minuti di difese arroccate e simulazioni da Oscar sarebbero invece l’apoteosi dello spettacolo?
La verità è che il calcio femminile fa paura perché è autentico. Perché dimostra che le donne possono essere forti, tecniche, competitive, senza chiedere il permesso. E ogni volta che una ragazzina sceglie il pallone invece del pattinaggio, crolla un mattoncino del muro invisibile che separa i “giochi da maschio” da quelli da femmina. Per fortuna qualcosa si muove. Sempre più donne si fanno spazio, nonostante tutto. Parlano di tattiche, scrivono editoriali, allenano, giocano, fischiano falli. Non per dimostrare qualcosa, ma perché il calcio è anche loro. Come lo è di chiunque lo ami, senza bisogno di “autorizzazione culturale”.
E se ancora oggi c’è chi pensa che una donna tifosa sia un’anomalia, forse il problema non è la donna. È il concetto stesso di “normalità” che andrebbe rivisto. Perché l’unica cosa davvero strana è credere che la passione abbia un genere.
Se il calcio è una religione, allora anche le donne hanno diritto alla loro messa laica ogni domenica. Con tutto il rispetto per chi ancora si scandalizza nel vedere una donna discutere di pressing alto con la stessa intensità con cui commenterebbe un abito di gala: fatevene una ragione.
Il calcio non è più solo vostro. Non lo è mai stato. È di tutti. E forse, solo ora, comincia davvero a esserlo.
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