Francesca Biasone - L'Elogio del CaosQuattro chiacchiere con Rubriche Tra le righe 

La tristezza è facile il caos è complicato. Intervista a Francesca Biasone

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A cosa o a chi ti sei ispirata per questo libro?

La città di Roma ha ispirato le atmosfere e le immagini che ho desiderato ricreare per questa storia. L’incanto e la decadenza, l’eternità e la precarietà della Capitale animano i personaggi, avvolgendo la stagione di vita raccontata.


Come è stato scriverlo? Quali sentimenti e quali difficoltà ci sono state?

Scrivere “L’elogio del caos” è stato un viaggio intenso, impegnativo ed emozionante. Le difficoltà che pure ci sono state, legate ad esempio al tempo disponibile che sembrava non essere mai abbastanza, sono state valicate proprio dai sentimenti che hanno rappresentato il motore di queste pagine. 

Nel leggere questo libro ho avuto la forte sensazione di vivere sulla mia stessa pelle una concentrazione di emozioni e sentimenti, come se tutti si fossero dati appuntamento per tessere la trama di una storia in cui molti possono rivedersi. Paura, felicità, tristezza, rabbia, disgusto si inseguono, si danno la mano, si respingono, si confondono. Amore e delusione non trovano mai il giusto spazio. Insomma, il titolo mi è parso sempre più chiaro pagina dopo pagina, quale può essere l’insegnamento dentro tutto questo caos? E come si può gestire?

Da parte mia non esiste l’intenzione di un insegnamento, solo quella di raccontare una dimensione, uno stato d’animo. Gestire il caos ha a che fare con il controllo pieno della propria realtà e, di conseguenza, a mio avviso, è un’aspirazione, più che una concreta possibilità. Allo stesso tempo, credo che la conoscenza, l’esperienza, l’attenzione per gli altri, possano avvicinarci e, nel tempo, aiutarci a governare quel tumulto intrinseco ed estrinseco che appartiene alla vita stessa.


Spesso siamo noi i veri sabotatori della nostra esistenza, che armi possiamo usare per difenderci da noi stessi in questo caso?

Flavia, la protagonista di questo romanzo, innescherà, a un certo punto, continui tentativi di sabotaggio nei confronti della sua stessa felicità, del suo amore. Flavia non si ama abbastanza e di conseguenza non sa amare. Nel corso del libro, attraverso dei flashback, si sveleranno in parte le radici di questa sua incapacità. Parlando dell’amica Beatrice, Flavia si contrapporrà a lei dicendo che “era fatta per essere felice, lei”… e che sapeva volersi bene: il bene l’aveva difesa dalle difficoltà e dalla solitudine, sempre. Ecco, credo che sia questa l’arma da utilizzare per difenderci dai noi stessi. Il volersi bene rappresenta un’arma potentissima. Ci sono persone a cui la vita ha dato in dono questa capacità, per chi non la possiede può essere difficile, molto difficile, barcamenarsi nell’oceano dei sentimenti, ma penso che imparare ad amarsi sia un tentativo da compiere.


“Pare che la rabbia sia un impulso di cui è bene liberarsi. Io credo che a volte metta al riparo dal disordine dei sentimenti”. Cosa intendi per “disordine dei sentimenti”?

Nella quotidianità non sempre si riesce ad avere la consapevolezza del fluire degli eventi e dei sentimenti… può capitare, invece, che un impeto di rabbia, un litigio, un episodio di rottura (rispetto alla quotidianità che a volta ci fagocita) possano regalarci una visione ordinata di quella realtà che sta mutando e che nel trasformarsi crea, appunto, disordine. Un disordine dei sentimenti inteso come quella confusione che il turbamento emotivo porta in sé.


“La tristezza è facile il caos è complicato “. Spesso nel libro si parla dell’impossibilità di restare fedeli ai propri sentimenti, si preferisce non vivere piuttosto che rischiare tutto a carte scoperte. Cosa senti di consigliare a chi si rivede in queste affermazioni?

La mia è una riflessione, più che un consiglio, e questa riflessione mi ha portato a comprendere quanto sia più semplice e auspicabile vivere il dolore in maniera totalizzante, piuttosto che scivolare nel caos, in una dimensione confusa, nella perdita di sé stessi e della realtà che ci appartiene. 


A volte alziamo barriere grandi come grattacieli in cui amiamo murarci per “difenderci” dall’altro, dalla paura di metterci realmente a nudo. Secondo te da cosa nasce questa paura?

Dichiarare i sentimenti rendendoli limpidi all’altro, palesare i propri desideri, espone inevitabilmente a viverne le conseguenze, nella gioia e nel dolore che questa apertura comporta. Credo che sia la paura del giudizio, e ancor più quella del rifiuto, il freno tossico che induce a vivere in una posizione di difesa. In ogni tipo di rapporto (d’amore, d’amicizia, di parentela, di lavoro), il rifiuto, se da una parte può irrobustire fornendo gli strumenti per strutturare in maniera sempre più raffinata il proprio io, dall’altra può creare una ferita la cui cicatrice resta come memoria del dolore. 


“Ci vuole coraggio anche nel voler essere amati, ci vuole struttura per capire che non siamo colpevoli per i sentimenti che ci viene dato di provare. L’amore genera felicità così come genera dolore e le colpe sono di chi l’amore lo respinge o lo rifiuta. Ho capito che se non accetti l’amore allora meriti di perderlo”. Cosa vuol dire per te “accettare l’amore”?

Vuol dire accoglierlo ed essere grati per averlo ricevuto in dono. L’amore non è un appuntamento dovuto, non tutti hanno la possibilità di incontrarlo… allora, se la vita a un certo punto presenta il grande amore, sarebbe bello “accettarlo” e fare quel passo in più che permetta di superare resistenze e paure. 


“Penso che certi pezzi di cuore non torneranno mai ad appartenerci. Continueranno a pulsare dove li abbiamo perduti”. È possibile elaborare questo lutto e riappropriarci delle nostre parti sofferenti con un buon lavoro interiore?

Credo che quello che si perde, in termini di affettività e di tempo, non possa essere recuperato. Ecco perché è importante acquisirne la consapevolezza: riconoscere le cose importanti, le opportunità preziose, e afferrarle, custodendole, se le amiamo. Allo stesso tempo, credo che quei “pezzi di cuore continueranno a pulsare dove li abbiamo perduti”, diventando una sorta di monito: al di fuori di noi, ma accanto a noi, a illuminarci la strada. Laddove il passato si è smarrito, esso potrebbe mutare in un faro per il presente. 


Ci sono progetti per il futuro? O opere in cantiere?

Sì, esiste una nuova idea narrativa. 

 

Ilaria Tizzano

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