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Quella volta che pubblicizzai una pasticceria bangladese

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Al Signor G. piace quella che noi occidentali chiamiamo orribilmente “cucina etnica”. Si può dire che la maggior parte del tempo passato insieme l’abbiamo speso all’interno di un kebabbaro, di un ristorante cinese o mediorientale. Solitamente, nella mia passata vita romana, ero solita infilarmi nei peggiori locali dalle insegne sconosciute: piccole “locande” cinesi frequentate solo da cinesi, ristoranti indiani dove si poteva ordinare solo in inglese, negozi coreani sempre pieni di suore asiatiche.

Diversamente il Signor G. è più meticoloso nella scelta degli esercizi commerciali: osserva attento il menù esposto, preferisce locali confortevoli e studia sempre la clientela. Con queste premesse, non c’è da stupirsi se l’ultima volta che mi è venuto a trovare qui a Mestre (VE) ha esplicitamente richiesto di provare quello strano posto, forse una pasticceria, popolato solo da “indiani”, che avevamo visto l’ultima volta. Il posto in questione, dalla luminosa insegna multicolore, si trova in una traversa di via Piave, zona prossima alla stazione considerata da molti malfamata.

Sorvolando la pessima reputazione del quartiere, la cosa certa è che qui abitano moltissime persone provenienti da svariate zone del mondo. Passeggiando per le strade si possono infatti facilmente individuare genti originarie dell’Africa, del Sud-Est asiatico e Asia orientale, Est Europa e una piccola presenza del Sud America. Nella condivisione degli spazi e delle culture troviamo così il Magazin Romanesc (il supermercato romeno) proprio di fianco all’alimentari cinese, che oltre a rifornire i ristoranti cinesi della zona, vende anche prodotti tipici per altre comunità quali quella filippina, thailandese, peruviana e coreana, per dirne qualcuna. In questa incredibile zona multiculturale (altro orribile termine), una sera di dicembre io e il Signor G. ci avventuriamo in cerca di quella che informalmente chiamavamo da qualche tempo la “pasticceria indiana”.
In mezzo al reticolato di strade che divide via Piave da via Cappuccina, proprio dopo un gigantesco salone di bellezza tutto bianco, si trova la nostra pasticceria. La si riconosce subito per via dell’insegna, grande quanto l’intera facciata, iper-colorata. L’intero menù è esposto tra blocchi di colori vivaci, che risaltano ancor di più per la presenza di fianco del salone bianco, le cui ampie vetrate mostrano uno stanzone chiaro e spoglio. Fuori, un minuto capannello di gente.
Per entrare ci facciamo piccoli in mezzo alla folla. Il locale non è grande, tre metri per due forse ad occhio e sempre estremamente affollato. Sono circa le 20 e tutti dentro stanno sgranocchiando qualcosa. Su due delle pareti perimetrali vi sono dei banconi attaccati al muro e alla vetrina, qui molti mangiano spiedini di carne e bevono thè. Al centro si erige l’enorme bancone carico di sconosciuti dolciumi dalle forme per noi strane. All’altezza del mio naso ci sono molte vaschette piene di palline bianche e gialle e vicino la testa del Signor G. una vetrinetta dove riconosciamo i tipici snack fritti della cucina indiana (samosa, pakoras) insieme a involtini vuoti o ripieni di pollo. In alto, sull’ultimo lembo di parete sotto il soffitto, si vede un lungo menù che si srotola come una greca, scritto tra l’inglese e l’italiano.
Ci posizioniamo da subito di fronte alla vetrina dei dolciumi, e cerchiamo di identificare qualcosa che potrebbe piacerci. I due titolari, dietro il bancone, ci ignorano totalmente. Per circa dieci minuti, completamente immersi in un caos di persone, movimenti, chiacchiere e risate, continuano a svettare sopra le nostre teste sacchetti di carta pieni di chissà quale dolcetto. La famiglia di fianco a noi sembra aver catalizzato l’attenzione del proprietario. La madre continua ad ordinare cose, mentre il papà cerca di capire i desideri delle tre figliolette. Una di queste, una bambina tutta vestita di rosa alta nemmeno un metro, si aggrappa alla gamba del Signor G. e gli ruba un sorriso.
Sopportiamo divertiti il fatto che ci ignorano totalmente. Ogni tanto ci rivolgono qualche sguardo che ci attraversa. Privilegiano i connazionali, mi sembra giusto. Gino il salumiere a casa mia faceva lo stesso con i forestieri. Nel frattempo un via vai di gente entra, saluta, e sparisce dietro una tenda. Sembrano conoscersi tutti, e le ordinazioni sono sempre ritardate da rumorose chiacchiere scherzose (quelle che io fantastico essere le stesse domande che faceva Gino su famiglia ed affini).
Ancora non abbiamo ben identificato la provenienza di questi pasticceri. Riconosco alcuni cibi, mangiati spesso al ristorante indiano, ma qualcosa non torna. Poi, una piccola targhetta con un indirizzo del Bangladesh ci svela l’arcano. Mentre facciamo supposizioni sulla cucina e ripassiamo ancora una volta le ordinazioni, nel locale entra un tizio con una telecamera seguito da un compare con il microfono.
Iniziano così una serie di interviste agli avventori della pasticceria, condotte nel mezzo del caos. La presenza della televisione ristringe lo spazio vitale, e noi ci schiacciamo contro la vetrina, sempre più con la sensazione di essere tremendamente non voluti. Mentre osserviamo divertiti (il Signor G. un po’ di meno) le interviste, il signore con il microfono in mano si accorge che siamo bianchi ed italiani. La mamma della famiglia di fianco ne approfitta subito, si sporge in mezzo alla folla e sorridendomi mi chiede gentile di poter parlare per la tv bengalese. Io sorrido imbarazzata, mentre il Signor G. mi grida un “no!” con gli occhi. Sto già dicendo di sì con la testa quando la piccola troupe si sposta repentina di fronte a noi, il tizio con il microfono mi mostra i pollici in segno di “ok”, e il proprietario sorride felice e ci dice: «dite tutto buono! Tutto buono!». Comprendiamo subito di star partecipando ad una promozione per qualcosa, forse un programma tv, forse un bengalese Onda Verde. Una cosa è certa: finalmente il pasticcere si è accorto di noi.
Facciamo la nostra bella comparsata. Io sorrido dicendo che è la prima volta che vado lì e sembra tutto buono. Il Signor G. racconta il suo desiderio di assaggiare lo Shish Kebab, scatenando l’ilarità nel locale. Penso sia come quando da Gino arriva qualche americano che dice mortadella tutto sbagliato, e la signora Franca e la signora Marta ridono beate, pensando che in fondo sti ammericani non sanno mangiare e non capiscono niente.
Finita la nostra réclame, tutti ci sorridono finalmente. La troupe si sposta dietro al bancone, ed inizia la lunga, lunghissima, intervista al proprietario. Un’omelia che ci ruba altri minuti, mentre nel silenzio gente sgranocchia samosa che prende dalla vetrinetta senza domandare a nessuno, e ci scruta.
Nel cantilenare del proprietario, riesco a riconoscere qualcosa di familiare. Roti, Pulao, Raita, Samosa, Pakoras, Chhena gaja, etc… Ci accorgiamo così che sta citando l’intero menù a memoria.
Sono ormai quasi trenta minuti che siamo dentro il locale. Abbiamo fame e siamo scoraggiati. Finita l’intervista il pasticcere finalmente ci guarda. Deve sdebitarsi del favore che gli abbiamo fatto poco prima. Con grosse difficoltà (attenzione che va e viene, diversi problemi con la lingua) riusciamo a prendere quasi tutti i fritti che troviamo nella vetrinetta. Siamo troppo stanchi per provare ad ordinare dal menù, non vogliamo attendere oltre, solo correre a casa con qualcosa da mettere sotto i denti. Come dolce aggiungiamo una vaschetta di cham cham, dolcetti farinosi e pieni di latte della forma e dimensione di crocchette di patate. Io vengo rapita dagli imarti, dolci dalla forma di fiori ricamati, fritti e ricoperti di sciroppo. Stucchevoli e deliziosi. Il pasticcere appena vede che glieli indico me ne regala uno, la nostra piccola ricompensa.
Tra altre difficoltà riusciamo a pagare. Dopo quaranta minuti siamo finalmente fuori, nel gelo e nella nebbia veneta.

Nessun lieto fine per la nostra avventura: durante la notte al Signor G. viene mal di pancia.

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