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Intervista a Nilla Zaira D’Urso per il saggio “Arte Contemporanea senza lattosio”

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“Arte Contemporanea senza lattosio”, il nuovo saggio di Nilla Zaira D’Urso pubblicato da Nino Bozzi Editore, si propone di esplorare la connessione tra arte e quotidiano, svelando l’intricato intreccio di abitudini, ossessioni e paure che permeano il nostro mondo del XXI secolo. Rivolgendosi in modo singolare ai frequentatori dei centri commerciali, ai consumatori di cibi fast food, agli intolleranti al lattosio e agli estimatori della chirurgia plastica, il libro offre uno sguardo penetrante sul presente, sul cibo che consumiamo, sui selfie che scattiamo e su quella particolare concezione di arte contemporanea che si insinua nelle pieghe della nostra esistenza. Ecco l’intervista che ha rilasciato a noi di Fix On Magazine.

Il tuo libro, “Arte Contemporanea senza lattosio”, sembra una visione unica e provocatoria del nostro mondo contemporaneo. Come hai sviluppato l’idea di connettere abitudini quotidiane come il consumo di cibo fast food, la chirurgia plastica e l’uso dei social media con l’arte contemporanea?

Intanto, per me è naturale e conseguenziale creare connessioni. La conoscenza come molteplicità e complessità è un mio mantra che custodisco grazie a Calvino. E poi ritengo che non si può prescindere dall’analisi del nostro contesto sociale, storico, tecnologico e mediatico se si sceglie di occuparsi di arte.

Mi sono spesso trovata a pensare a questioni legate all’arte contemporanea davanti alla serialità degli scaffali di un supermercato o in un centro commerciale, luogo che frequento di rado e con una certa premura perché non è un una location a me affina.

Quella serialità, nonostante abbia una logica commerciale, ha comunque una composizione di assemblaggio seriale tipico di alcuni allestimenti o installazioni d’arte del nostro tempo. Così, ho intuitivamente unito i ragionamenti, facendo analogie e cercando di parafrasare queste connessioni, mentre facevo la spesa o ero in attesa del mio turno nel centro estetico.

Diventava, quindi, sempre più chiara e nitida l’idea avere intorno oggetti in esposizione seriale anche dall’estetista con l’offerta di smalti e creme tutte esposte in serie per colori. E la stessa interfaccia social è una composizione seriale di profili, sponsorizzazioni, post, video e immagini che scorrono in modo ripetitivo.

Con queste premesse ho riflettuto sul nostro quotidiano, scandito da tutti questi elementi che raccontano le nostre abitudini e le tendenze annesse come quelle della medicina estetica, sempre più in voga tra le adolescenti.

Per me è un fatto molto curioso vedere e osservare la crescita di un numero di donne e uomini – sempre più in aumento – che vogliono rifarsi molte parti del corpo e del viso oltre alle note iniezioni di acido ialuronico e credo che questo sia indicativo di una tendenza, un movimento inconsapevole, di stili dettati dai medici estetici e non più dagli artisti come avveniva un tempo.

Questo mio modo di guardare mi ha permesso di creare connessioni e similitudini poiché ritengo che ogni cosa sia collegata in questo pianeta.

Inoltre, essendosi azzerata la distanza tra il pubblico e l’arte contemporanea e non avendo più l’arte quella aurea sacra, ho associato la stessa a un hot dog con patatine fritte, maionese e ketchup.

Nella prima parte del tuo libro, fai un’introduzione storica su concetti chiave come il ready made di Marcel Duchamp e le prime performance artistiche. Come questi concetti del passato si collegano alle espressioni artistiche del XXI secolo, secondo te?

Questa domanda mi riporta indietro nel tempo a un incontro con l’artista romano Ennio Calabria con il quale parlammo proprio di questo e lui mi disse che “Duchamp con il suo ready made è l’artefice di un equivoco da cui non siamo più usciti, da oltre un secolo”.

Condivido il pensiero di Calabria e aggiungo come nella storia dell’arte del Novecento si è scelto di prendere troppo seriamente questo ready: per me  un oggetto filosofico che riflette sulla natura di un’opera d’arte con grande senso umoristico.

Quindi, per parlare di arte contemporanea e per raccontarla a tutti come ho scelto di fare con il mio libro è inevitabile il passaggio su Duchamp e sulle prime sperimentazioni performative dalle quali derivano molti aspetti innovativi scenici, teatrali e chiaramente artistici del nostro secolo.

Il concetto stesso di performance nella sua unicità e irripetibilità è carne e corpo in una società dematerializzata e virtualizzata. La performance ci ricorda che abbiamo una pelle, un mondo emotivo che comunica con segni, emozioni e visioni che convergono tutti nell’immaginario visionario, onirico e anche “brutale” dell’inconscio.

Nella seconda parte del libro, ti concentri su tematiche legate al modo di vivere contemporaneo, come l’uso dei social media e la digitalizzazione. Come queste influenze si riflettono nell’arte digitale e quali sono gli elementi chiave che hai voluto evidenziare in questa sezione?

Ho voluto evidenziare la dematerializzazione in tutti i sensi sia nell’arte sia nel file di una foto – che solo stampata diventa oggetto fisico; sia nell’uso costante dei selfie che esistono come pratica in quello spazio pronto a essere condiviso e a viaggiare come dato tra i dati in un’altra logica, la cui interfaccia social è spesso ripetitiva e seriale.

Ma si parla sempre di ciò che materialmente non tocchiamo. I nostri polpastrelli, invece, toccano di continuo gli schermi di tutta questa tecnologia che proietta, modifica e trasforma qualunque immagine.

Quindi, da una parte l’uso dei social e degli smartphone come veicoli di proiezione narcisistica con l’uso di filtri e app varie che dematerializzano e mostrano un reale più esasperatamente bello e finto; dall’altra parte tutta l’arte digitale che ricrea, trasforma paesaggi e visioni di tutti i tipi, creando un’altra realtà in uno spazio fisico che non esiste fisicamente ma dove si mescolano visioni e segni onirici con simboli immaginifici universali.

E un altro aspetto non meno interessante è dato dalla continua riproducibilità dell’immagine di un’opera d’arte sul web poiché nell’era digitale tutto è tracciabile e digitalizzabile. Quindi, molti – me lo auguro – hanno idea di Caravaggio se lo cercano online ma magari non hanno mai visto le sue opere di persona e potremo continuare con altri esempi.

È il corpo di qualsiasi opera a entrare in relazione comunicativa ed emotiva con l’osservatore nel reale.

Sul piano virtuale, non della realtà aumentata, siamo nell’ottica di un guardare più che un entrare in relazione empatica.

Questo aspetto mi interessa particolarmente non vivendo più le epoche storiche come veri e propri movimenti artistici e potrei ipotizzare che dall’arte digitale possano arrivare quei simboli intramontabili di un inconscio collettivo, accessibile da tutti i mezzi tecnologici: tablet, pc, smartphone.

Il titolo “Arte Contemporanea senza lattosio” suggerisce una sorta di purificazione o eliminazione di elementi superflui. Come hai concepito questo titolo e quale messaggio intendi trasmettere attraverso di esso?

In realtà, non ho mai pensato il titolo come una purificazione o eliminazione del superfluo ma ho considerato di più il concetto di denutrizione quindi l’assenza di un componente che crea una alterazione semmai.

La privazione “senza lattosio” mi permette immediatamente di essere nel nostro tempo con tutti i suoi altri codici commerciali: senza zuccheri aggiunti, senza olio di palma, senza oli idrogenati, senza glutine.

Noi siamo questa società e magari Feuerbach avrebbe trovato una declinazione simile, parafrasando la sua nota affermazione: “l’uomo è ciò che mangia”.

Nella sezione finale del libro, parli di “Profilassi” come la conclusione del tuo saggio. Cosa significa per te questa “profilassi” e come contribuisce a concludere il tuo messaggio sull’arte contemporanea?

È una di quelle parole che ho sentito di più in fase di scrittura, avendo scritto questo libro nel periodo pandemico ed è una parola sulla quale cerco spesso di riflettere per coglierne un significato più autentico.

Io non credo di dare una ricetta nel libro ma semmai – e mi auguro che questo avvenga – di risvegliare nei lettori un modo diverso per accorgersi di sé stessi e del mondo, delle proprie emozioni e di quelle altrui anche quando sono davanti a un piatto di patatine ketchup e maionese o quando sono davanti a un’opera d’arte del nostro presente. Dico ai lettori di guardarsi intorno e vedere dove stiamo andando per avere cura di ciò che mangiamo e di ciò che pensiamo.

Quali sono i tuoi progetti futuri come scrittrice? Hai già in mente nuovi romanzi o progetti letterari che vorresti condividere con i tuoi lettori?

Scrivere, scrivere, scrivere. Uno dei miei pensieri più frequenti è quello di dare forma alle parole, di raccontare e di essere presente – tramite le mie parole – in quello spazio di visione dell’immaginario di ogni lettore.

Assolutamente sì, ho già altri progetti di scrittura ma per ora non posso dire altro.

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