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L’arte come sublimazione del dolore

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Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, seppur abbastanza superato nelle sue formulazioni teoriche già da Jung, rimane a mio dire sempre attuale con la sua teoria della sublimazione intesa come risoluzione creativa del conflitto.

Secondo il neurologo austriaco tutti noi affrontiamo momenti di grande disagio, sofferenza e frustrazione durante l’arco della nostra esistenza, sentimenti che spesso incanaliamo in atteggiamenti sbagliati lasciandoci travolgere così da meccanismi connaturati quali la rabbia, il disprezzo, lo scoramento o la demoralizzazione.

Grazie alle sue ricerche condotte su individui di età diverse, egli aveva dimostrato che esistono molteplici alternative per superare questi periodi di difficoltà e di crisi intraprendendo un percorso ben più nobile di quello della cattiveria o del livore dal quale, spesso, ci lasciamo irretire.  

“Il dolore sublimato produce il genio”.

Con questa asserzione Freud raggiunge, secondo me, l’apice dei suoi studi perché ci istruisce su cosa, eventualmente, proiettare le nostre “pulsioni di morte”, partorendo qualcosa di più elevato e sublime rispetto a noi stessi, qualcosa che “ci avvicini il più possibile al cielo”. Non a caso grandissimi artisti come Vincent Van Gogh, Ernest Hemingway e Alda Merini (per citarne solo alcuni) hanno avuto vite molto travagliate, spesso vittime di quel male dell’anima che non avrebbe lasciato, a questi grandi geni, altro scampo se loro stessi non fossero riusciti a convertire la loro sofferenza in opere d’arte straordinarie che resteranno eterne.

Un’attività come questa richiede necessariamente una grande tenacia, forza di carattere e strumenti culturali e intellettivi che non sempre l’essere umano possiede, ma che può acquisire con allenamento e abnegazione.

Ognuno di noi ha la libertà di scegliere quale meccanismo di difesa ingenerare per superare o attraversare fasi di conflitto individuali e relazionali, e uscirne migliori e più strutturati di prima. Non è necessario che la sofferenza produca inevitabilmente il genio.

Quello che, in realtà, Freud voleva intendere è di non temere il cambiamento, di abbandonare la nostra zona di conforto per annientare gli impulsi infausti che ci tengono prigionieri e che non ci consentono di brillare. Ognuno scelga, dunque, il percorso più consono al proprio io; l’importante è mantenere come obiettivo ultimo il non consentire ad emozioni deleterie di guidare le nostre azioni e la nostra esistenza rendendoci vittime di noi stessi e di ciò che non riusciamo a gestire o a controllare.

Ciò che lo psicologo consigliava è di rendersi scevri da sentimenti quali l’invidia o l’odio, ad esempio, inalveando il potenziale che essi custodiscono al loro interno su qualche forma d’arte, per impedire che questi ci divorino da dentro, ci conducano ad un’analisi falsata della realtà e non ci consentano di esprimere al meglio i talenti che ognuno di noi conserva dentro se stesso.

Silvia Tufano
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