Le parole giuste contano, anche quelle al femminile
“C’è la parola. Perché non la utilizziamo?” diceva Eduardo De Filippo nella commedia Ditegli sempre sì. Una battuta, apparentemente semplice, che contiene una verità profonda: le parole non sono solo suoni, ma strumenti che danno forma al pensiero e alla realtà.
Eppure, nel linguaggio quotidiano, anche quello più colto, anche quello dei media, continuiamo a inciampare su un ostacolo che dice molto del nostro tempo: l’uso sbagliato (o evitato) delle parole al femminile.
Perché si continua a dire il vice direttore anche quando si parla di una donna? Perché troviamo naturale scrivere caporedattore, ministro, ingegnere, preside — anche se chi occupa quel ruolo è una donna? C’è la parola. Esiste. È giusta. È corretta. Ma non la usiamo.
Dietro la resistenza all’uso del femminile nei ruoli di prestigio si cela più di una svista grammaticale: c’è l’eco di una cultura che fatica ancora ad accettare pienamente la presenza femminile nei luoghi del potere, della competenza, della visibilità. Dire la direttrice o la presidente non è solo un esercizio linguistico: è riconoscere, apertamente, che quella funzione appartiene anche, giustamente e fortunatamente alle donne.
Eppure, spesso si preferisce un maschile “neutro”, che neutro non è. È un maschile che annulla, che ingloba, che pretende di rappresentare tutti, ma in realtà esclude. Dire “il direttore” per una donna è come entrare in una stanza con un nome scritto male sulla porta: ci si può sedere alla scrivania, ma si resta ospiti, mai titolari.
Molti, ancora oggi, distorcono il naso davanti ad architetta, avvocata, medica. Altri dicono che “suonano male”, come se l’orecchio avesse il diritto di decidere chi può essere nominato e chi no. Ma ogni parola nuova, ogni uso inedito, all’inizio suona strano. Poi diventa parte del vocabolario quotidiano se c’è la volontà di cambiare.
E allora torniamo a Eduardo. Alla sua ironia, alla sua lucidità. C’è la parola. Perché non la usiamo? Semplicemente, perché usare le parole giuste ci costringe a vedere la realtà per quella che è: complessa, mutevole, più equa. Usare le parole giuste, in fondo, è un atto di giustizia. E oggi, giustizia significa anche nominare correttamente le donne che dirigono giornali, amministrano città, curano, costruiscono, inventano.
Non è un vezzo linguistico, non è una battaglia di retroguardia: è una questione di rispetto. Di riconoscimento. Di visibilità.
E se qualcuno vi dice che “non cambia nulla”, rispondetegli con le parole di una grande filosofa del linguaggio, Adriana Cavarero: “Se non mi chiami col mio nome, non mi vedi. E se non mi vedi, non ci sono.”
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