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Cuore, carne e sangue. Cosa ci rende papà

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Non è la carne e il sangue, ma il cuore che ci rende padri e figli. [ J. Schiller ]

Una frase che suona poetica, ma che nella pratica quotidiana si traduce in notti insonni, interrogativi esistenziali davanti ai compiti di matematica e discussioni surreali su chi fosse più forte tra Rocky Balboa e i supereroi Marvel.

Essere padre oggi è un’avventura complessa e affascinante, una sorta di equilibrio tra la saggezza del passato e il tentativo disperato di non sembrare un boomer quando si cerca di capire il linguaggio criptico dei figli. Io, padre di due meraviglie – una femmina e un maschio – mi trovo ogni giorno a confrontarmi con le differenze generazionali, dalla musica ai film, fino al modo di affrontare le difficoltà.

Quando ero piccolo, mio padre aveva poche ma granitiche regole: se cadevi dalla bicicletta, ti rialzavi; se un compagno di scuola ti provocava, lo ignoravi o ti facevi valere (senza esagerare, che poi c’erano le conseguenze).Per non parlare dei rimproveri, io non ero un figlio facile ma neanche mio padre era da meno.  Oggi, invece, dobbiamo gestire il concetto di “safe space”, il delicato equilibrio tra insegnare la resilienza e proteggere dalle ingiustizie del mondo. E poi ci sono i dialoghi esistenziali con i figli, che iniziano con domande come “Papà, perché non hai TikTok?” e finiscono con me che cerco di spiegare che la mia adolescenza era fatta di walkman e cassette riavvolte con la penna.

La musica, per esempio,  è un altro campo di battaglia generazionale. Io sono cresciuto con il rock, il pop anni ’80 e ’90, le ballate struggenti di un’epoca che non tornerà più, comprese le boyband come Take That, Backstreet Boys etc.  Loro ascoltano qualcosa che definiscono “musica”, ma che spesso sembra più un esperimento di suoni generati da un’intelligenza artificiale in crisi esistenziale. Eppure, in qualche modo, si crea un ponte: quando mia figlia mi chiede di ascoltare insieme “Bohemian Rhapsody” (capita raramente e se ascoltiamo musica che piace ad entrambi, guai a cantare) , o magari ricordo ancora quando mettevamo su le canzoni di Michael Jackson, e mio figlio si esalta guardando “The Goonies”, sento che il cuore, più della carne e del sangue, sta facendo il suo lavoro.

Poi ci sono i film. I miei miti cinematografici erano eroi d’azione con battute epiche e poche smancerie. Oggi, invece, le storie hanno una profondità psicologica inaspettata, con personaggi che si interrogano sui loro traumi infantili prima di salvare il mondo. Ma alla fine della giornata, poco importa se l’eroe del momento si chiama Indiana Jones o Spider-Man: quello che conta è che si guardi il film insieme, con un sacchetto di popcorn e qualche risata condivisa (e anche questo ahimè non capita spesso)

E poi ci sono le difficoltà, quelle vere, che non hanno manuali d’istruzioni. Un tempo, i problemi si affrontavano con la filosofia del “stringi i denti e vai avanti”. Oggi, essere padre significa imparare a dire “parliamone”, ad ascoltare senza giudicare, a esserci nel modo giusto, senza soffocare. Perché essere genitori nel 2025 è un po’ come guidare in un videogioco open world: non ci sono mappe predefinite, solo strade da esplorare insieme. Quando vedo mio figlio giocare a Fortnite mi entusiasmo per la sua bravura ma il gioco, onestamente, poco mi rende felice. Preferisco, paradossalmente, quando giocano a Far Cry o anche a Call of Duty (si lo so, sono violenti, ma fortunatamente i miei figli hanno imparato bene il concetto di gioco dalla realtà)

Ecco, forse è questo il punto: non è la carne e il sangue che ci rende padri e figli, ma il cuore che mettiamo in ogni piccolo gesto quotidiano. Nel riavvolgere mentalmente le cassette della nostra vita e condividerle con chi verrà dopo di noi. Nell’accettare che non sempre capiremo tutto, ma che saremo sempre pronti a provarci. E soprattutto, nel sapere che, nonostante le differenze di gusti, epoche e tecnologie, l’amore tra un padre e un figlio è una playlist senza tempo.

E niente, buona festa del papà!

 

Giacomo Ambrosino

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