Climate change e diritto internazionale. Intervista alla scrittrice Virgilia De Cicco
Oggi ho il piacere di presentarvi e consigliarvi il saggio di Virgilia de Cicco, “Il Climate change nella storia del diritto internazionale 1972 – 2022”. Un’opera davvero interessante e ricca di spunti di riflessione, che affronta una delle tematiche più urgenti e rilevanti del nostro tempo: il cambiamento climatico.
Questo saggio invita il lettore a immergersi in un tema sempre più cruciale, che non solo sta modificando profondamente il nostro ambiente, ma rappresenta anche una seria minaccia per la salute e il futuro del nostro pianeta. Virgilia de Cicco ripercorre le principali conferenze internazionali dedicate alla lotta contro il cambiamento climatico, analizzando le strategie adottate e proponendo possibili soluzioni per affrontare questa sfida globale. Un punto fondamentale su cui l’autrice pone l’accento è che l’impegno individuale, per quanto necessario e doveroso, non è sufficiente. È indispensabile un’azione corale che coinvolga attori economici e istituzionali, in grado di adottare politiche concrete e mirate.
Giornalista e autrice, Virgilia de Cicco ha sempre mostrato una grande sensibilità verso temi legati alla sostenibilità ambientale, approfondendoli attraverso articoli e interventi dedicati. Con questo saggio, ha deciso di dare un ulteriore contributo, mettendo a disposizione del pubblico una visione chiara e approfondita su un argomento complesso, ma di vitale importanza.
Un libro che non solo informa, ma ispira a riflettere e ad agire. Un’opera da leggere e condividere.
Nel tuo saggio esplori l’evoluzione normativa delle politiche climatiche dal 1972 al 2022. Quali sono state, secondo te, le tappe più significative di questo processo e perché hai scelto di affrontare l’argomento delle politiche climatiche in chiave storica?
Dal 1972 – anno della prima conferenza ONU sull’ambiente – al 2022, numerosi eventi hanno segnato l’evoluzione della diplomazia climatica. Tra questi, l’Accordo di Parigi spicca come uno snodo cruciale ed è di recente tornato al centro del dibattito dopo la decisione del neoeletto presidente Trump di ritirare nuovamente gli USA dall’intesa. Firmato nel 2015 durante la COP21, rappresenta un vero spartiacque nella storia della diplomazia climatica perché sancisce, per la prima volta, l’impegno condiviso a contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C.
Naturalmente, questo è solo uno dei tanti momenti chiave che hanno plasmato le politiche climatiche, che ho scelto di rileggere attraverso una prospettiva storica per evidenziare come la crisi climatica non sia solo una questione tecnica o scientifica, ma soprattutto politica: il frutto di decisioni, conflitti di interesse e, appunto, negoziati che si sono susseguiti nel corso del tempo. Comprendere questa dimensione storica è essenziale, perché significa riconoscere che l’attuale crisi climatica non è un incidente di percorso, ma la diretta conseguenza di un modello economico insostenibile, fondato sull’illusione della crescita infinita e promosso dalle istituzioni statali del Nord globale.
A proposito di politiche climatiche, ti concentri in particolare su quelle di tre attori: Unione Europea, Cina e Stati Uniti. Con la recente rielezione di Donald Trump alla presidenza statunitense la domanda su quali scenari potranno aprirsi durante il suo secondo mandato è d’obbligo. Ti chiedo quindi cosa dobbiamo aspettarci nella lotta alla crisi climatica adesso che un noto negazionista è diventato presidente di uno dei Paesi più potenti al mondo.
Con la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca è verosimile immaginare un passo indietro nella lotta al cambiamento climatico. Anzi, più che immaginarlo se ne può già prendere atto. Fedeli agli impegni presi in campagna elettorale, i primi provvedimenti del nuovo mandato di Trump hanno incluso il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, la dichiarazione di un’(inesistente) emergenza energetica nazionale e una spinta alla deregolamentazione per favorire l’estrazione e la lavorazione delle risorse fossili ancora inutilizzate.
Il problema è che queste scelte non produrranno conseguenze solo all’interno degli Stati Uniti, ma influenzeranno anche il panorama politico globale. In un contesto internazionale in cui i leader negazionisti sono sempre più numerosi, la linea trumpiana potrebbe rafforzare atteggiamenti scettici e dilatare ulteriormente i tempi di un’azione climatica efficace. Del resto, lo stesso Trump – come accennavi – ha più volte sposato teorie negazioniste e complottiste sul clima, arrivando a definire il cambiamento climatico un’invenzione del governo cinese, pensata per danneggiare la competitività statunitense.
E proprio in nome di questa competitività, il presidente Trump non esiterà a sacrificare ulteriormente le politiche ambientali. Se è vero che la storia climatica statunitense è sempre stata segnata da oscillazioni tra impegno e disimpegno, oggi la posta in gioco non è mai stata così alta e il tempo per agire mai così ridotto. Per questo è particolarmente preoccupante che uno dei Paesi più inquinanti al mondo continui a sottrarsi alle proprie responsabilità, sia a livello nazionale che internazionale.
Facendo riferimento a una delle recenti e più discusse dichiarazioni di Trump circa la possibilità di acquistare la Groenlandia, sposterei l’attenzione proprio sulle zone artiche per chiederti perché quello che accade a così tanti chilometri di distanza da noi è coì significativo quando si parla di crisi climatica e perché dovremmo preoccuparcene?
Il cambiamento climatico è un fenomeno globale e ciò che accade in regioni lontane, come può essere la Groenlandia, ha ripercussioni dirette su tutti noi. Sullo scacchiere internazionale, per esempio, il progressivo scioglimento della calotta artica non solo accelera l’innalzamento del livello del mare e altera le correnti oceaniche, ma apre anche nuove rotte commerciali e rende potenzialmente accessibili risorse naturali prima irraggiungibili. Tra queste figurano le terre rare, indispensabili per le nuove tecnologie e la transizione energetica, rendendo la Groenlandia una zona di crescente interesse economico e strategico.
Durante la presidenza di Donald Trump, come accennavi poc’anzi, gli Stati Uniti hanno manifestato apertamente il loro interesse per l’isola, arrivando appunto a proporne l’acquisto, nel tentativo di rafforzare la propria influenza nella regione artica, di cui l’isola fa parte.
Tuttavia, oltre alle implicazioni politiche ed economiche, lo scioglimento dei ghiacci pone anche rischi di natura diversa: il disgelo del permafrost potrebbe infatti liberare antichi virus e batteri, con potenziali conseguenze per la salute globale. D’altra parte, la recente esperienza del Coronavirus ci ha dimostrato quanto rapidamente un nuovo patogeno possa diffondersi a livello globale e trasformarsi in una pandemia. Per questo, monitorare i cambiamenti provocati dal climate change non è solo una questione ambientale, ma anche di sicurezza internazionale.
Parlando di crisi climatica, non possiamo non esplorare anche le sue possibili soluzioni. A questo riguardo ti chiedo di ricordarci velocemente cosa sono le Conferenze delle Parti e quale potenziale diplomatico racchiudono per la lotta al cambiamento climatico.
Le Conferenze delle Parti (COP) sono incontri annuali organizzati nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC nella sigla inglese) e rappresentano un momento cruciale per la cooperazione internazionale nella lotta al cambiamento climatico. Da queste conferenze sono nati accordi importanti come il Protocollo di Kyoto e l’Accordo di Parigi, che hanno cercato di porre obiettivi condivisi per ridurre le emissioni di gas serra e contenere il riscaldamento globale.
Il loro principale punto di forza è proprio la capacità di riunire quasi tutti i Paesi del mondo attorno a un obiettivo comune, favorendo il dialogo e la definizione di strategie condivise. Inoltre, durante il loro svolgimento, si crea la giusta pressione politica affinché gli Stati adottino misure più ambiziose. Un obiettivo che viene raggiunto anche attraverso l’azione di ONG e società civile, che pur non avendo la possibilità di contribuire in maniera diretta alla formazione dell’accordo finale, possono comunque influenzare l’andamento dei negoziati. Quanto ai Paesi partecipanti, non tutti dispongono della stessa forza negoziale: le economie più potenti riescono spesso a far valere le proprie posizioni, mentre le nazioni più vulnerabili – pur essendo quelle che subiscono maggiormente gli impatti della crisi climatica – incontrano maggiori difficoltà nell’influenzare le decisioni globali.
Eppure, nonostante queste criticità, le COP restano un pilastro fondamentale della governance climatica. Negli ultimi anni, per esempio, si è vista una maggiore attenzione ai finanziamenti per aiutare i Paesi in via di sviluppo a fronteggiare le conseguenze del cambiamento climatico, così come una crescente mobilitazione della società civile, che spinge per impegni più concreti. Le sfide restano enormi, ma le COP continuano a essere il luogo dove il mondo si confronta e costruisce, passo dopo passo, soluzioni condivise per un futuro più sostenibile.
Avviandomi alla conclusione della nostra conversazione, vorrei soffermarmi su un argomento di cui tratti in appendice, parte in cui descrivi la crisi climatica come non neutrale da un punto di vista di genere. Ti chiedo quindi di spiegarci come e perché essa influisce in misura maggiore sulla vita delle donne.
La crisi climatica non è neutrale dal punto di vista di genere perché gli impatti ambientali colpiscono in modo diverso uomini e donne, amplificando le disuguaglianze già esistenti. Questo è particolarmente evidente nei Paesi più vulnerabili, dove le donne svolgono spesso un ruolo centrale nella gestione delle risorse naturali, come l’approvvigionamento di acqua e cibo, e nell’economia di sussistenza. Con l’aumento di siccità, alluvioni e eventi metereologici estremi, queste attività diventano più difficili e faticose, aumentando il carico di lavoro delle donne e rendendo ancora più precaria la loro condizione economica.
Inoltre, le donne sono più esposte ai rischi legati agli sfollamenti forzati causati dai disastri ambientali. Quando intere comunità sono costrette a migrare, le donne e le ragazze affrontano un rischio maggiore di violenza, sfruttamento e matrimoni precoci e anche l’accesso alle risorse per la ripresa dopo un disastro è spesso squilibrato.
Ma non è solo una questione di vulnerabilità: le donne sono sempre più protagoniste delle soluzioni alla crisi climatica. Con le dovute differenze, nei movimenti ambientalisti, nelle comunità locali e nelle istituzioni, le donne stanno giocando un ruolo chiave nel promuovere strategie di adattamento e mitigazione più inclusive, sostenibili ed efficaci. Ecco perché le politiche climatiche dovrebbero integrare una prospettiva di genere: non solo per tutelare chi è più esposto agli effetti della crisi, ma anche per valorizzare le competenze e il contributo delle donne nella costruzione di un futuro più equo e resiliente.